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Una sera da peccatori con “Il Parco dei Peccati”

“Il Piacere è peccato, ma qualche volta il peccato è un piacere”, scrive Gorge Byron e non gli si può certo dare torto! Ma chi è in grado di commettere tutti e sette i peccati capitali in una sola sera?
Chi ha partecipato nelle serate di sabato e domenica scorsa, allo spettacolo teatrale itinerante “Il Parco Dei peccati” organizzato da Arte e Dintorni, insieme al comune della città, presso il parco Ranghiasci a Gubbio, può dire di aver assaporato il gusto del peccare. I numerosi presenti, incuriositi e al contempo quasi scettici, restii a percorrere questa strada del peccato, si sono poi ritrovati avvolti in un’atmosfera del tutto surreale e mistica, sono stati catapultati in un “mondo fuori dal mondo”, in cui tutto è possibile e dove non peccare è peccato, ossia nell’universo multiforme ed enigmatico dell’arte. Dislocati lungo tutto il parco, i sette vizi capitali a cui ne è stato aggiunto un ottavo, sono stati rappresentati ognuno attraverso una forma artistica differente. Iniziando dalla lussuria dove i fori di una serratura ci immettevano in un universo parallelo, costruito alla perfezione da N. Bremer dove vive la passionalità carnale. Quadri fluttuanti accompagnavano nel girone degli accidiosi e fra questi uno specchio, il nemico-amico che tutti temono perché riflessi vediamo noi stessi e i nostri difetti e debolezze. Poi una danza superba ha catturato l’attenzione dei più o meno umili. Le demoniache ballerine A.Bellucci, C. Pasquini, G. Ramacci e B. Stirati, coordinate da C. Monacelli, hanno danzato ossimoricamente parlando, divinamente. Una luce abbagliante ha poi accecato il pubblico, quella del pelide Achille (Bledion Sota). A seguire la gola, dove regna la scultura, ma niente gesso o marmo, solo dolciumi e frutti succulenti, intrecciati in forme varie e colorate da E Scaramucci. Si ode in lontananza un declamare accorato, è quello dell’irato (S. Graciolini) che innalza il suo grido attraverso i versi di Catullo, Schopenhauer, i suoi e di M. Paeselli. Ma la strada è ancora lunga e alti a lato del sentiero accasciati fra l’erba a far da cornice a forzieri e scrigni dorati, quattro avari, F. Amoni, S. Galiotto, C. Acaccia ed E. Pinnacoli a cui poi si aggiungerà nel corso dei loro dialoghi la figura tetra e oscura del Barone, M. Panfili, geloso dei suoi averi che ,ahimè, dovrà prima o poi lasciare. Questa breve rappresentazione teatrale, è tratta da “Il Cavaliere avaro” di Puskin. “Una vera sfida organizzare uno spettacolo composito con un tema tanto arduo” dice Marco Panfili che ha curato la regia dell’intero spettacolo, aiutato dai sopra citati Federico Amoni e Chiara Acaccia, entrambi studenti di teatro al DAMS di Bologna. Come ultima tappa del percorso, un peccato aggiuntivo ma tipico del nostro tempo, che scrive G. Bernard Shaw è peggio dell’odio, è l’essenza della disumanità, l’indifferenza. A rappresentarla manichini freddi e privati del capo, niente occhi per vedere o orecchie per sentire, solo corpi plastici privi di anelito vitale.

Elisabetta Scassellati

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